Da mesi il tema del lavoro è fossilizzato sul blocco dei licenziamenti.
Numerose grandi imprese, in questo ultimo anno, hanno fatto registrare incrementi di fatturato anche del 30% per cento, ma si continua a parlare solo di esuberi e del rischio di licenziamento. Prima dell’emergenza sanitaria, solo chiusure e fughe repentine dalla Sardegna di aziende che per tanti anni hanno utilizzato il personale a condizioni inique con immensi ricavi.
Leggendo alcuni vecchi libri la mia attenzione è stata catturata da una raccolta di interventi in Consiglio Regionale del 28 aprile 1971, riguardanti l’approvazione di una “legge regionale a tutela dei lavoratori impegnati in dure lotte per far valere i loro diritti”.
Allora si dibatteva dei rapporti tra legge regionale e legge statale e di riparto di competenze nella materia del lavoro.
Il governo italiano (Dc, PSI, PSDI, PRI) presieduto dall’On.le D.C. Emilio Colombo aveva contestato che tale potere normativo spettasse al Consiglio Regionale e aveva bocciato quella legge sostenuta da alcuni consiglieri regionali della Democrazia Cristiana (altri all’interno del partito si erano opposti) e dal Partito Comunista.
La questione era complessa e questo conferisce maggiore spessore all’intervento di quegli onorevoli e particolare rilievo al ruolo dagli stessi assunto in Consiglio Regionale nel sostenere l’intera classe operaia sarda, fatta destinataria di ritorsioni e di minacce, conseguite alle legittime rivendicazioni salariali, alle istanze di migliori condizioni di lavoro o all’esercizio del diritto di sciopero.
Nello specifico alcuni consiglieri regionali si battevano per l’approvazione della legge regionale del 22 ottobre del 1970, concernente l’istituzione di un “Fondo di solidarietà” da parte della Regione Sardegna a favore di quei lavoratori che versavano in condizioni di difficoltà economiche per essere stati privati della retribuzione a causa dell’esercizio dei loro diritti e del diritto di sciopero. Questo disegno di legge era stato presentato nel periodo del c.d. autunno caldo del 1969, caratterizzato da numerose lotte sindacali dei lavoratori che il “padronato” tentava di contrastare privando il lavoratore del “salario”. Con termine “padronato” gli onorevoli del tempo intendevano far riferimento ad aziende del “continente”, finanziate dalla nostra Regione col Piano di Rinascita per l’industrializzazione della Sardegna.
Rivendicazioni e scioperi non erano ammessi e chi vi partecipava veniva privato del “salario”.
Questo era uno dei tanti strumenti di quella che veniva definita “resistenza padronale”, certamente lo strumento che più di altri era idoneo a fiaccare la lotta. Il salario era infatti necessario in quanto, nella maggior parte dei casi, costituiva l’unica fonte di sostentamento della famiglia, per questo si parlava di “salario familiare”. Non salario personale, ma salario familiare, cosi da rendere ancora più pregnante il senso e la portata della legge regionale che si intendeva approvare per far fronte all’evidente sbilanciamento di posizioni, mediante l’istituzione di un fondo che consentisse ai lavoratori in lotta di beneficiare di un sussidio pubblico in risposta ai “ricatti padronali”. Questo disegno di legge era stato respinto e rinviato dal governo nazionale di allora che contestava e non riconosceva la potestà legislativa della regione sui temi del lavoro.
Nel sostenere questa legge, gli onorevoli del tempo, nelle sedute del Consiglio regionale, hanno richiamato le disposizioni della nostra Costituzione, l’articolo 3 sul principio di uguaglianza, l’art. 40 sul diritto di sciopero e l’art. 38 sul diritto al mantenimento e all’assistenza dei soggetti inabili. Ancora hanno richiamato le norme dello Statuto dei Lavoratori, appena approvato con la legge n. 300 del 1970, che, agli artt. 15 e 16, “ vieta al padrone di adottare trattamenti economici discriminatori”.
“ Il padrone non può dare premi anti-sciopero o penalizzare il lavoratore che vuole far valere i propri diritti”.
Su queste basi i politici difendevano la loro potestà legislativa e affermavano, con forza, come “il Consiglio Regionale avesse esercitato correttamente il proprio diritto di legiferare a tutela dei lavoratori per contrastare la vasta gamma di strumenti padronali tesi a scoraggiare la lotta sindacale”.
È forte il senso delle parole di un consigliere regionale del P.C.I. che, nel corso di un suo lungo intervento in aula, sempre durante la seduta del 28.4.1971, ha affermato: “Padroni decisi a disattendere la parola data pur di conservare una pressione coloniale e fascista nei confronti dei lavoratori non hanno diritto di cittadinanza in Sardegna e l’esecutivo regionale ha il dovere di intervenire pesantemente non solo per i miliardi che questi datori di lavoro hanno ricevuto dalla regione a fondo perduto o con mutui a a tasso agevolato”, ma anche “ per ripristinare i diritti di libertà dei lavoratori e aiutare il processo di formazione e di crescita di questa giovane classe operaia”.
In aula si udivano interventi come questo: “Autonomia non è solo affermazione di principio; autonomia è anche questo (prosegue un consigliere) è la difesa dei lavoratori all’interno dei complessi dei gruppi industriali che sono calati in Sardegna per avere, sbagliando, lavoratori remissivi. Noi dobbiamo imporre scelte che tornino a vantaggio del Popolo Sardo e della Sardegna”.
Negli interventi di alcuni politici del tempo è chiara l’ispirazione ai principi e all’esperienza torinese di Gramsci. A distanza di 50 anni, quegli interventi dovrebbero essere e portati a conoscenza e tenuti presenti da tutti coloro che ci hanno governato in questi ultimi dieci anni e che hanno svilito e mercificato il lavoro, erodendo diritti e tutele, con riforme che, ne sono certo, sarebbero state adeguatamente contrastate, dai politici degli anni 70, degni rappresentanti di quei principi teorizzati e, anche in concreto, trasmessi a tutti i suoi compagni lavoratori da Antonio Gramsci, rispetto ai quali la nostra classe politica recente è invece rimasta del tutto “indifferente”, sebbene siano tante le aziende che ancora adottano politiche ricattatorie e di sfruttamento, non solo straniere e continentali, ma anche Sarde, arricchitesi grazie al lavoro dei dipendenti e che ricorrono ad ogni stratagemma, come trasferimenti o licenziamenti pretestuosi di lavoratori e lavoratrici in difficoltà, con figli piccoli o con seri problemi di salute, pur ridurre i costi e incrementare il profitto.
È di questi giorni la notizia che alcune grosse aziende sono state scovate dalla Guardia di Finanza e dall’Ispettorato dl lavoro di Cagliari, con oltre 500 lavoratori irregolari, interposizione illecita di manodopera e condizioni retributive inique. Queste aziende sfruttano e tengono in ostaggio i lavoratori, applicano contratti collettivi e individuali che violano ogni minimo principio, anche costituzionale, di legalità, alterano il mercato e operano in regime di concorrenza sleale a danno di quelle aziende che invece rispettano le regole, tutelano i dipendenti e ogni giorno devono affrontare enormi difficoltà per restare in piedi.
Vignetta tratta da “Il Manifesto” del 13.6.2021.